L’attenzione alla questione fondamentale della forma, del linguaggio e dell’autoriflessività del testo narrativo accomuna i protagonisti della scena letteraria di inizio Novecento e in particolar modo le figure di Virginia Woolf e James Joyce, per cui la centralità della rappresentazione è tale che le loro opere possono essere viste come modelli conoscitivi e rappresentativi del reale, come strutturemimetiche che testualizzano il processo compositivo da cui scaturiscono riproducendone i passaggi attraverso particolari artifici formali, i quali costituiscono al tempo stesso peculiarità stilistiche del soggetto creante e la risposta al tentativo di considerare il romanzo come strumento di indagine sul mondo esterno. Per entrambi gliautori la scrittura narrativa diviene una costruzione linguistica che manifesta la visione del mondo – e del prodotto artistico che di esso costituisce un riflesso – propria di ciascuno, essendo la loro peculiare percezione della realtà componente imprescindibile della narrazione. Da ciò deriva, dunque, una concezione dell’opera come metafora epistemologica e fenomenologica che analizza e riproduceattraverso il linguaggio l’esperienza di chi l’ha creata, il rapporto tra il self autoriale e la realtà circostante; concezione, questa, che rispecchia uno dei tratti peculiari della narrativa del Novecento, vale a dire la presenza diffusa e costante di questioni legate alla definizione della natura e delle modalità di conoscenza del mondoesterno, nonché del prodotto artistico in quanto eterocosmo costituito interamente di linguaggio, mediante il quale tali problematiche ricevono una testualizzazione secondo una marcata tendenza alla referenzialità e all’autoreferenzialità al tempo stesso.
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