Qualcuno potrebbe storcere la bocca davanti all’argomento proposto da “Sono stato inumano”, il libro di Marco Genzolini pubblicato dalla casa editrice Morlacchi di Perugia. Pare già di sentire le obiezioni di costoro: “ma come, ancora un testo sulla strategia della tensione?”; “Non sono forse argomenti stantii”, come aveva detto qualche mese fa Giuliano Ferrara dopo il revival d’interesse suscitato dall’uscita del film di Giordana sulla strage di Piazza Fontana? La risposta dell’autore, formulata per mezzo di una duplice domanda, è paradossale, quindi spiazzante: e se ciò che vi era di essenziale da pensare nella strategia della tensione, malgrado il profluvio di pagine dedicatole, fosse rimasto impensato? e se essa riguardi più il nostro futuro che il nostro passato? Non si dimentichi –precisa Genzolini - che rispetto agli “Anni di piombo”, tanto a destra quanto a sinistra, sono prevalsi soprattutto due atteggiamenti: di mitizzazione nostalgica da una parte e di condanna politico-morale dall’altra. E nessuno dei due agevola quell’esercizio critico necessario alla comprensione di un fenomeno tanto duraturo, importante e pervasivo. Del tutto coerentemente con tale asserto, il libro cerca di riandare, tramite uno scavo genealogico, al “peccato originale”, al “Big Bang” del “secolo breve” e crede di scorgerlo nel deflagrare della guerra civile europea. Per l’autore infatti, onde comprendere gli anni in questione, non è sufficiente soffermarsi sulle tensioni socio-politiche degli anni ’60 e ’70. Occorre ricominciare l’analisi dal momento in cui si è profilato l’incontro-scontro tra le tre prospettive economico-politiche dominanti del XX secolo: la capitalista, la marxista e la fascista. Il conflitto ideologico che ne è scaturito ha prodotto dapprima la guerra civile ad alta intensità sotto forma di seconda “Guerra dei Trent’anni” (1914-’45) e, successivamente, nel quadro della “Guerra fredda”, quella a bassa intensità sotto forma di scontro ideologico terroristico. Nella parte centrale del suo testo, Genzolini ripercorre la genesi e le trasformazioni semantiche che hanno caratterizzato la formula “strategia della tensione”. Parte dunque da Leslie Finer, il giornalista inglese dell’ “Observer”che la conia, alla vigilia di Piazza Fontana”, passa poi ad analizzare l’uso che ne hanno fatto alcuni dei maggiori politologi e storici italiani negli anni ’70 ed ’80 (Bobbio, Tranfaglia, Ferraresi, Panebianco) per arrivare ai suoi significati odierni. L’esito, ancora una volta, è disorientante. Se negli anni ’70 nessuno dubitava, tanto a destra quanto a sinistra, che vi fosse qualcosa come la strategia della tensione, oggi, seguendo la scuola “revisionista”, molti (Galli della Loggia e Sabbatucci su tutti) sostengono invece esservi stata una “tensione senza strategia”. Ergo, nessun “Grande vecchio”, nessuna trama internazionale, nessun disegno di destabilizzazione attuato dall’interno delle istituzioni stesse. In questa stessa parte, l’Autore, coerentemente con l’asserto iniziale, colloca la genesi della strategia della tensione non nel 1969, come vorrebbe una certa “vulgata” storica, bensì negli anni a cavallo tra il 1944 ed il 1946. Ovverosia tra la conferenza di Bretton Woods ed il varo della politica del “Conteinment” da parte del presidente statunitense Truman. Da lì si dipanano i disegni imperialisti di USA ed URSS, da lì prende piede l’egemonia statunitense in Europa e sempre da lì si sviluppano le logiche della “Guerra fredda”. In tale scenario l’Italia assume subito un ruolo geo-politico centrale diventando il perno del sistema atlantico di difesa nel Mediterraneo. Sennonché la penisola vede anche l’ascesa del più forte partito comunista d’Occidente, ideologicamente legato a Mosca. Se appare subito chiaro a tutti che gli USA si sarebbero opposti con ogni mezzo a che l’Italia finisse sotto l’egida di Mosca, l’URSS, dal canto suo, spinge in ogni modo, politicamente ed economicamente, affinché il PCI di Togliatti accresca i propri consensi, occupi le gramsciane “casematte” del potere, mantenga alla propria sinistra la presenza della cosiddetta “Gladio rossa” di Pietro Secchia con fini chiaramente eversivi, allo scopo di spostare la penisola sotto il proprio “ombrello” protettivo. E la Confindustria? Beh, finanzia a sua volta una campagna giornalistica sui principali quotidiani nazionali ed una struttura clandestina armata, guidata dall’ex turatiano Zaniboni, allo scopo di contrastare il “pericolo rosso”. Nella terza parte Genzolini, dopo avere tracciato un essenziale quadro di riferimento riguardo la nascita dei movimenti neo-fascisti e quella dei gruppi della sinistra extraparlamentare, individuandoli, rispettivamente, nella categoria di “Rivoluzione conservatrice” e nel dibattito sull’eredità del marxismo-leninismo, cede la parola ai vari protagonisti politici dell’epoca affinché raccontino la loro versione della strategia della tensione. È questa la sezione più ampia, anche perché fornisce un sintetico riferimento biografico per ognuno dei personaggi analizzati . Tale suddivisione sembra pensata, tra le altre possibilità, per favorire l’approccio al testo anche da parte di lettori non specialisti. La conclusione, iscrivendo l’intero discorso nell’orizzonte della cosiddetta “bio-politica” (l’ideologia e la violenza come strumenti di controllo dei corpi), pare aprire la possibilità di nuovi ed interessanti prospettive.
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