Il Manifesto - 16.02.2007
di
Marco Dottileggi l'articolo
Arrabal schiavo del dolore del suo tempo
Nell'ultimo lavoro dello scrittore spagnolo, «Lettera d'amore. Come un supplizio cinese», da poco uscito per Morlacchi, la figura della madre introduce il lettore in una dimensione macabra, che ruota intorno al tema della «storia matrigna»
Nessun monologo è puro. Dietro le sue forme chiuse permangono frammenti di voci, aperture e tracce di insospettabili presenze. Lettera d'amore. Come un supplizio cinese (a cura di Micol Pieretti, Morlacchi editore., pp. 122, euro 13), l’ultimo lavoro di Fernando Arrabal, non sfugge a questa regola paradossale. Nel testo, scritto nel 2002 in forma di pièce per l'attrice israeliana Orna Porat, Arrabal affida alla propria madre il compito di ricucire la trama di una vicenda tragica, di una mancanza mai del tutto accettata e di un legame segnato, più che da una ferita, da una colpa e da un principio inesorabile di morte. Come il «supplizio cinese» a cui allude il sottotitolo dell'opera, richiamando alla mente Georges Bataille il quale, prima di descriverlo nelle Lacrime d'eros, nei fatti già vi alludeva nell'Azzurro del cielo (che, sullo sfondo di una vicenda dall'autore giudicata «troppo personale», aveva come tema proprio la guerra civile). Le vittime del supplizio, scrive Arrabal, «erano sempre due innamorati, o due schiavi che avevano tentato la fuga. Il boia li incatenava l'uno all'altro», gettandoli in un pozzo e lasciando che, per follia, disperazione e fame, si divorassero l'un l'altro. «la guerra civile», conclude Arrabal, «ci inflisse questo martirio».
Riprendendo alcuni spunti già presenti in un suo romanzo del 1997, Ceremonia por un teniente abandonado, dopo anni di silenzio e di attenzioni rivolte altrove (agli scacchi, di cui è giocatore professionista, o alla pamphlettistica, non sempre riuscita in verità), Arrabal, nato a Melilla, enclave spagnola in territorio marocchino, nel 1932, reintroduce a forza nel proprio lavoro quello sguardo tragico sulla Spagna, filtrato attraverso la lente del dramma personale del padre repubblicano denunciato dalla madre e scomparso nelle galere di Franco, che ne aveva contraddistinto stile e immaginario fin dalle prime prove. Prove fra le quali si segnalavano il romanzo Baal Babilonia, scritto in francese nel 1959 e recentemente pubblicato in una nuova versione di Roberto Cadonici per la casa editrice pistoiese Libreria dell'Orso (pp. 165, euro 9,50), la sua trasposizione cinematografica del 1972, sotto la regia dello stesso Arrabal, col titolo Viva la muerte! (anche questa da poco disponibile in dvd nel catalogo di Rarovideo), testi chiave del «movimento panico» come Il gran cerimonale, L'architetto e l'imperatore d'Assiria o i frammenti onirici, in forma poetica della Pietra della follia.
La ripetizione di temi infantili e motivi biografici, espressi talvolta nella forma del ritornello - come quello, ormai celebre, della canzoncina che apre Viva la muerte! cantato anche dalla coppia Lennon e Yoko Ono - o del taglio e della riscrittura dei medesimi episodi nel corso di un'opera, in Arrabal diventa non ossessiva, ma sarcastica rivisitazione del proprio passato. Venato di tinte macabre, il sarcasmo però non esclude la tragedia, perché il ricordo (e il carico di sofferenza che ne consegue) si muove come gli pare, senza seguire regole o disciplina, imprevedibile come «una bolla d'aria che mi passa dal cervello al cuore, dal cuore al cervello» e «a volte si fa più pesante e, quando piango, la si direbbe una goccia di mercurio». Personaggio complesso, «centro caleidoscopico del dramma», in Lettera d'amore, la madre di Arrabal introduce i lettori in una sorta di dimensione inquisitoria che al proprio centro ha il tema della «storia matrigna», suo doppio enfatico. Un tema che, al di là delle chiavi su cui si fonda l'immaginario di Arrabal, sembra contiguo a quello dell'ultimo Genet, il quale cerca una «madre impossibile» in Palestina e si ritrova prigioniero di un nuovo supplizio della storia, come recita il titolo del suo ultimo romanzo, Un captif amoureux. Anche in Arrabal il «captif» più che al prigioniero, sembrerebbe corrispondere al «cautivo», lo schiavo, di Cervantes.
È la memoria a legarlo mani e polsi al dolore del proprio tempo (la guerra civile, per Arrabal, la causa palestinese, Sabra e Chatila, per Genet), ma è sempre la memoria che, paradossalmente, permette «di uscire da sé», dimenticando qualcosa, mentre qualcos'altro si apprende grazie al punto di vista decentrato della madre. E attraverso la figura della madre che Arrabal riesce infine a superare i limiti di una memoria e di una scrittura in prima persona che aveva contraddistinto i suoi lavori degli anni Sessanta. «La memoria mista creando, come se l'effetto precedesse la causa», come se solo così, «uscendo dalla tela», anche il più atroce dei segni diventasse vero e falso al tempo stesso, e ogni monologo accogliesse infine la deriva fatale della propria inestricabile molteplicità.
Facebook
Youtube
Instagram