Recensioni filosofiche - 01.04.2006
di
Antonio Allegraleggi l'articolo
Perini, Roberto, Della soggettività finita. Dalla teoria del soggetto alla filosofia dell’uomo.
Perugia, Morlacchi, 2005, pp. 234, € 15,00, ISBN 88-89422-85-8.
Il libro di Roberto Perini rappresenta al tempo stesso un tentativo di analisi delle categorie della soggettività e di fondazione dell’antropologia. In altra parole, l’ambito dell’antropologia filosofica, nelle sue forme fondamentali (esaminate in specifici capitoli: storicità, intersoggettività, mortalità), non viene estrinsecamente ricondotto, bensì strutturalmente fondato nelle forme fondamentali (anzi, nella forma fondamentale) della soggettività. Viene dunque tracciato un percorso senza soluzione di continuità tra principi logico-metafisici della soggettività e riflessione antropologica.
Un’impostazione siffatta si presta ad alcune diffidenze. A questo proposito è opportuno però notare che, anche se l’autore rivendica con precisa consapevolezza la natura propriamente classica del suo tentativo (il che significa anche: in qualche misura inattuale, sia nelle ambizioni che nell’idioma filosofico adoperato), d’altra parte non si tratta di un’adesione tout court a un modello di tipo hegeliano (l’opzione più evidente ipotizzabile per un’impostazione del genere). Più precisamente, occorre prendere sul serio la distinzione cruciale fornita da Perini: non si tratta di dedurre le categorie antropologiche, ma di fondarle nelle loro articolazioni a priori. L’ambizione è di determinare le forme pure, si direbbe, delle categorie dell’antropologia; non di compitare la loro effettiva scansione. Tale distinzione sembra valida, se lascia aperto, come pare, un ampio spazio al concreto apporto di dati empirici. Detto diversamente: l’intervallo tra concettualmente determinabile ed esperienzialmente dato viene detto incolmabile (cfr. p. 18) – e tuttavia, tra essi è posto un legame appunto fondativo.
Questa ipotesi di lavoro resta comunque ambiziosa: comporta il non accontentarsi del referto anche fenomenologico, oltre che empirico, mirando piuttosto alla determinazione concettuale che dovrebbe spiegare la ratio del referto fenomonologico stesso; pur se non nella sua articolata determinazione, almeno e soprattutto nella sua ragion d’essere. I dati dell’antropologia filosofica nei tre ambiti succitati manifesterebbero dunque un significato più originario ed essenziale, nella misura in cui la fenomonologia dell’intersoggettività o della mortalità esprimerebbe, nella propria struttura fondamentale, ragioni d’essere che dipendono dalla forma della soggettività in quanto tale. L’assetto della soggettività, se è veramente tale, non può non ricadere ampiamente e costitutivamente sulle multiformi espressioni della soggettività stessa. L’orizzonte logico preliminare non può non determinare ciò che “entro” la soggettività accade.
Fin da ora appare leggibile il quadro teorico fondamentale del volume. Esso ripropone, in maniera singolarmente efficace, un’idea classica, si diceva, del filosofare, e più precisamente un’idea di tipo trascendentalistico-fichtiana (ma, d’altra parte, in un luogo cruciale (pp. 74-75) la prospettiva del testo sembra prossima a movenze kierkegaardiane, più precisamente quelle delle analisi dialettiche dell’io esemplarmente condotte nella Malattia mortale o nella Postilla conclusiva). Questa ispirazione appare consonante con l’idea guida teoretica del volume: la sua tesi fondamentale è che nel soggetto occorra riconoscere, come questa tradizione ha sostenuto, sia il soggetto che l’oggetto del lavoro della coscienza; sia l’atto del conoscere che il termine conosciuto. L’intuizione di Perini è dunque che nella soggettività sia racchiuso strutturalmente questo irriducibile dualismo o ambivalenza. Proprio il cogitans dell’ego cogitans contiene una intenzionalità riflessivamente rivolta, in modo tale da aprire immediatamente il rapporto di unità (all’interno della sfera della soggettività) e separazione (in virtù dell’“oggettività” presente all’interno di tale sfera). Occorre notare che è cruciale che il campo del soggettivo sia segnato da questa dualità precisamente: l’unità del soggettivo è percorsa dalla separazione, ma contestualmente questa non abolisce l’unità.
Ne segue che subjectum e objectum non solo si implicano; ma soprattutto si predicano di uno “stesso”. O, come dice Perini: il “cogito si lascia assumere nella qualità di cogitatum” (p. 31); ovvero, il pensare come soggetto implica contestualmente la presenza preliminare (in senso empirico) di un soggetto del pensare. Il fondamento metafisico trova (ad altro livello) un fondamento empirico. In qualche misura, lo stessa formula cartesiana della res cogitans indica non solo il permanere all’interno di una prospettiva sostanzialistica, ma anche, più sottilmente, questa implicazione “finita” e oggettivata inerente al pensiero concretamente in atto.
La soggettività, in questa sua duplicità di trascendentale ed empirico, appare irrisolvibile sia nella pretesa del riassorbimento nell’infinito, sia in quella dell’insuperabilità del finito. In questo senso può osservare Perini: “Porsi come ponente (assolutezza, infinità) e porsi come posto (relatività, finitezza): questa distinzione essenziale, essendo tutta interna al concetto concreto o integrale della soggettività, anzi costitutiva di esso, indica come altrettanto essenziale per tale concetto, ovvero per l’idea di un pensante pensato o soggetto-oggetto, la coimplicazione dell’atto fondante, infinito, e del pensiero fondato, finito (perché oggettivo)” (p. 47). Ma allora, la finitezza o oggettività del soggettivo “si rivela essenziale al costituirsi della soggettività qua talis”. L’universale appare, cioè, sotto forma speciale e determinata: la soggettività va intesa come “posizione o affermazione dell’identità tra universale e particolare”, posizione che non può risolversi in identità attuale. La soggettività ha quale prerequisito, osserva acutamente Perini, “proprio quella distinzione e alterità tra soggetto e oggetto” (p. 51) che è in qualche modo configurata proprio e precipuamente all’interno della stessa soggettività.
Anche se in questo senso l’idealismo appare una posizione ineludibile (la reciprocità e correlatività di soggetto e oggetto non oscura il fatto che il soggetto è la relazione stessa), è chiaro che resta precluso l’esito sintetico dell’idealismo stesso (di qui il tono fichtiano). La risoluzione della finitezza del soggetto è fuori portata non per motivi legati a una generica volontà di riaffermazione della soggettività finita, ma perché nella struttura evidenziata la distinzione interna del soggetto è la condizione della autocoscienza e dunque della realtà effettiva del soggetto stesso.
Se questa è la struttura della relazione coscienziale, ciò non esime da una progressiva articolazione dei gradi della stessa. Ma ogni articolazione non può non riesprimere la forma fondamentale della soggettività. A ogni passo la soggettività si distribuisce nei propri due lati, senza possibilità di sintesi attuale. In questo quadro, in particolare l’autocoscienza è costituita in virtù della relazione posta “tra la coscienza in quanto altra dal soggetto e la medesima coscienza in quanto eguale a se stessa, ovvero tra distinzione e identità” (p. 67); relazione che, a sua volta, rispecchia “l’identità necessaria (=logicamente esigita), e insieme impossibile (=mai attualmente compiuta), tra la coscienza in atto, il pensante originario, il soggettivo assoluto come atto ponente, e la coscienza determinata, il pensante pensato, il soggettivo posto come oggettivo”. La contraddittorietà è qui quella di “un absolutum posto nella forma della finitezza, di un soggettivo posto nella forma dell’oggettività”. Tuttavia tale contraddizione è l’autocoscienza – e, senza tale contraddizione che definisce l’atto dell’autorapportarsi, né soggetto reale né, conseguentemente, soggetto logico potrebbero costituirsi (pp. 74-75).
La costituzione contraddittoria della soggettività è, così, in grado di infrangere le ipotesi che valorizzino esclusivamente identità e infinito su differenza e finitudine: nessun intero può mai essere toglimento dei termini che lo costituiscono (cfr. p. 94); ma, anche, delegittima le contemporanee, inadeguate promozioni del finito che dipendono dall’appagarsi del “dato” della finitudine stessa. Al contrario, la finitudine del soggetto consiste nell’esistenza reale della contraddizione che è l’autocoscienza – da ciò dipende l’impossibilità del soggetto di essere pienamente (attualmente) se stesso, di essere quell’identità che pure ne determina la forma. Evidentemente, coscienza e relazione sono termini fatti coincidere (cfr. p. 92), in modo tale da rendere impossibile un soggetto (cosciente, diremmo con pleonasmo) fuori della struttura delineata. Insomma: la soggettività ha come proprio fattore determinante la riflessività, e questa produce tale paradossale equazione tra soggettivo ed oggettivo. Molto opportunamente osserva l’autore: non si tratta di “avere” un’alterità dentro il soggetto; bensì di essere alterità (cfr. p. 117).
Potrebbe apparire già, a questo punto, relativamente chiaro il modulo che consente il passaggio dalle analisi finora riassunte alla sezione “antropologica” (le virgolette per far chiaro che restiamo in ogni caso all’interno di un orizzonte di antropologia filosofica) del volume di Perini. La finitudine del soggetto, esemplarmente fondata sulla struttura fondamentale del soggetto stesso, anzi, si direbbe, del soggettivo come tale, irrompe sulle modalità di esperienza attraversate dall’uomo. Si tratta dunque, e crucialmente, di un passaggio non estrinseco tra forma della soggettività ed esiti della antropologia.
Anzitutto la costituzione logica del soggetto finito individua il principio che fonda il concetto della storicità o temporalità: il soggetto è possibile nella misura del sostituirsi di determinazioni “sullo sfondo dell’unità di coscienza” (p. 127). Corollario importante: la soggettività è luogo logico che rende possibile il tempo – il tempo è nel soggetto, e non viceversa. La storicità esprime paradigmaticamente l’incompiutezza logica e ontologica della soggettività: l’autoposizione sempre ripetuta e mai conclusa, non è forse un modo esemplare di intendere la vicenda del soggetto stesso? L’impossibilità di una filosofia della storia in senso hegeliano fa dunque tutt’uno con l’impossibilità di una filosofia dello spirito assoluto. L’identità compiuta del soggetto significherebbe la conclusione delle determinazioni di coscienza: è chiaro che la prospettiva di Perini implica, per converso, un atteggiamento attento ma sottilmente critico nei confronti di lemmi storic(istic)amente decisivi quali progettualità o compimento.
Similmente, l’intersoggettività (quale alter ego) appare prefigurata dalla forma della soggettività come ego alter – la soggettività esibisce la dinamica che rende necessaria l’intersoggettività. Ciò implica, ancora in parole dell’autore, che “escludere il concetto di un io altro contraddirebbe insomma l’originaria costituzione logica dell’io […] in quanto sussiste un io, di necessità un altro io deve sempre poter sussistere” (pp. 159-160). La forma intimamente plurale dell’io è già una smentita del solipsismo. Qui mi limito a notare che, come lo stesso autore non manca di osservare, questa assicurazione (ed è, d’altronde, coerente col carattere propriamente fondativo dello sforzo, giuste le distinzioni abbozzate all’inizio di questa nota) perviene solo al de jure e non al de facto (cfr. p. 164). Gli altri soggetti sono possibili, non perciò sono reali. Le difficoltà generali dell’idealismo (o del trascendentalismo, se è per questo) rispetto al problema dell’intersoggettività, sembrano almeno in questo senso confermate.
E infine, la mortalità viene, coerentemente con l’impianto finora mantenuto, intesa come “nullificazione totale” (p. 197), il cui principio è “inscritto nella struttura stessa del soggetto per il suo essere finito, ovvero paradossalmente costituito come tale dell’altro da sé, o dall’alterità di sé a se stesso” (p. 202). La mortalità dunque appare una sorta di principio a priori, rispetto al quale ogni asserzione di immortalità non può che essere affermazione solo contingente (anche chi sopravviva indefinitamente è soggetto all’eventualità del morire, poiché non si tratta qui di una vera immortalità ovvero eternità, sostanzialisticamente inerente).
Le analisi dell’autore su quella che potremmo chiamare la concreta psicologia della morte sono acutissime, mettendo in luce una possibile chiave di lettura dell’angoscia che essa suscita (cfr. p. 206 sgg.). Mi interessa però qui sottolineare uno spunto relativo a quanto appena detto sulla contingenza dell’immortalità. Studioso del ‘600 filosofico, Perini sa bene che una gran parte di quelle classiche discussioni sull’anima aveva esattamente questa motivazione legata alla natura dell’immortalità. Una tesi fondamentale fu che l’immortalità è possibile proprio perché alla sostanza anima inerisce una assolutezza o necessità d’essere che, in qualche modo, non è contraddetta dall’atto della creazione di ogni anima. Le anime, pur create, in virtù della loro sostanzialità sono eterne (tanto è vero che la loro annichilazione è ormai possibile solo soprannaturalmente).
Questa minima nota storica serve per evidenziare che le analisi trascendentalistiche condotte nel libro avrebbero, ad avviso di chi scrive, tratto giovamento se avessero ritenuto di appoggiarsi su tesi sostanzialistiche. In realtà si tratta di un orizzonte non solo tematicamente escluso ma anche, a quanto pare, teoreticamente alieno all’autore. In un passo in particolare egli dichiara addirittura la reciproca esclusività del principio dell’identità e di quello della sostanzialità: l’“atto dell’egoità non può essere inteso come un’entità oggettiva, né tantomeno come proprietà di un’entità oggettiva; viceversa, un’entità sostanziale oggettiva non può essere un atto autoriflessivo” (p. 214). Si noti che la congiunzione di sostanzialità e riflessività è, con linguaggio diverso, proposta da Leibniz in relazione alla polemica con Locke sull’identità.
Appare chiaro quale sia la scena di pensiero postkantiana che induce il rifiuto netto di questa impostazione da parte di Perini; ma l’impressione è quella di una chiave di lettura preliminarmente assunta. Lo stesso autore nota lucidamente l’impossibilità dell’identità senza un principio di relazione premesso all’identità (cfr. p. 224, nota); ora, è chiaro che il trascendentale è tale principio, ma a mio avviso è possibile interrogarsi sulle condizioni di possibilità della relazione trascendentale e derivarne un argomento pro substantia. L’individualità del trascendentale come effettivo principio di unificazione, il chi coinvolto in realtà in ogni ascrizione di identità, insomma proprio il lato specificamente individuale che Perini ha messo al centro della propria analisi di contro alla indeterminatezza dell’Io in generale: non sono forse spiegabili in virtù di un principio di unificazione e distinzione sostanziale?
Si sarà compreso da queste ultime osservazioni che l’orizzonte del recensore non coincide con, anche se interseca, quello dell’autore. Ma i risultati di questo libro importante sono, mi auguro, nondimeno evidenti, anche se non è di maniera, in questo caso, dichiarare l’inadeguatezza della recensione per esprimerne i contenuti: il rigore delle pagine si succede infatti in modo tale da rendere manchevole ogni descrizione breve e puramente contenutistica. Vorrei che fosse però emersa la rigorosamente perseguita dialettica che Perini ha posto al centro del libro: tra totalità e frammento, soggetto e oggetto, identità e alterità, le contraddizioni costitutive della coscienza emergono con nettezza ammirevole, e, al tempo stesso, con una affascinante capacità di rifrangersi, ricorsivamente, a ogni livello.
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