Alla fine del Settecento, tra i giovani intellettuali tedeschi cresciuti nel culto di Goethe e di Schiller, si fa strada la convinzione che “diagnosi” e “prognosi” di quella crisi epocale che essi raffigurano alla stregua di una “fuga degli dei dal mondo”, possano darsi solo a partire da un ripensamento delle strutture fondamentali della civiltà europea. Questo cammino a ritroso li porta a fare i conti con il genere tragico, da loro considerato l’ideale presupposto per l’elaborazione di un modello di razionalità dialettico, aperto, in perenne divenire, in grado di non occultare le contraddizioni e di non eludere la sofferenza, ma anzi di adottarle quale punto di partenza della propria speculazione filosofica.
Lungi dall’esaurirsi in ambito romantico, tale paradigma di razionalità diventa, per tutto il secolo successivo, il tratto comune tra pensatori i più distanti per impostazioni, caratteri e scopi. Hegel e Schopenhauer, Hölderlin e Kierkegaard, Schiller e Nietzsche, pur essendo, per più di un verso, teoreticamente agli antipodi gli uni rispetto agli altri, risultano infatti legati dal medesimo riferimento concettuale a un mondo di miti e di simboli arcaici che, carsicamente, e sotto vesti sempre nuove, sembra per loro tornare, quale fonte di orientamento e di estatico smarrimento, nel labirinto della storia.
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